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19 luglio 2016

Macchine come umani: il test di Turing e l’intelligenza artificiale.

Secondo la teoria di Turing, se una macchina è in grado di sostituire l'essere umano in una conversazione, allora è intelligente.

Il giovane Alan Tuiring

Di tanto in tanto, qualcuno ci prova. Sì, perché quello dell’intelligenza artificiale è un tema interessante e divertente. Però non è facile immaginare che una macchina, abituata a pensare in base a uno e zero, possa essere in grado di uscire dal codice binario e trasformarsi in un vero e proprio essere pensante.

Infatti, quando a giugno un software russo ha superato il test di Turing, tutto il mondo ha gridato al miracolo, convinto che la dimostrazione data davanti alla Royal Society fosse vera. Eppure, la chatbox impersonata da Eugene Goostman aveva ingannato dieci professori su 30 dell’Università dei Reading. Tanto sarebbe bastato, per i programmatori russi Vladimir Veselov, Eugene Demchenko e Sergey Ulasen a sostenere di aver passato il test che dovrebbe certificare l’intelligenza artificiale di un computer. Eppure, le cose sono un po’ più complicate di così.

Il test di Turing, così com’è stato interpretato, ha radici che risalgono agli anni ’50, quando il padre dell’informatica scrisse un articolo intitolato “Computing Machinery and Intelligence”, computer e intelligenza, che prevede che se un computer è in grado di sostituire un essere umano in una conversazione, allora è intelligente.

L’assunto è stato messo in crisi negli anni dal progresso del software che, nonostante non sia diventato del tutto intelligente, è diventato, comunque, capace di conversare. Siri, per esempio, è in grado di sostenere una conversazione pur senza superare il test di Turing. Eppure, cosa avrebbe Eugene Goostman in più?

Secondo i programmatori, molto. In effetti, si è classificato primo in molti test di Turing. Tuttavia, la forzatura dell’Università di Reading stava nella cifra dei 3 docenti su 10. Il 30%, considerato, secondo un’interpretazione abbastanza libera delle idee di Turing, il limite superato il quale il software diventava intelligente.

Eppure, le cose non sono esattamente così. Chi ha provato a chattare con Eugene Goostman lo sa: il tredicenne digitale russo parla un perfetto inglese ma, dopo un paio di domande, comincia già a diventare prevedibile. Comunque, non è ancora tempo per un’intelligenza al silicone. Per quella, forse, servirà il computer quantistico. O forse, non arriverà mai.




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